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Storia dei primi piatti marchigiani

Per lungo tempo il simbolo gastronomico della regione Marche è stata la polenta, alimento unico e valido che sostituiva il pane. Se ne faceva un uso quotidiano, variando il condimento di volta in volta cosicché potesse in qualche modo apparire diversa.

Pian piano la cucina delle Marche – pur rimanendo povera perché spesso si reggeva su piatti unici, come i fagioli e le foje – è andata articolandosi in cibi ben definiti e diversi da zona a zona. Ogni piatto, che ha sempre un legame si col luogo di origine che con il folklore, ha per base preparazioni tradizionali antiche di un popolo di contadini, di pastori e di marinai.

È una lunga serie di cibi, assolutamente semplici, genuini, il cui valore è tutto nella sostanza e nella preparazione accurata: minestre gustose, sia asciutte che in brodo, per la maggior parte a base di pasta fatta in casa farcita o meno a seconda delle circostanze e zuppe invernali di verdure o legumi che riempiono le fondine fino all’orlo.

Questo è il mangiare di tutti i giorni, che si avvale per lo più degli ingredienti prodotti dalla stessa terra, ma per i giorni di festa, anche la minestra più modesta diventa importante. Ecco apparire il ripieno sostanzioso, il condimento farsi più ricco ed abbondante, il parmigiano più copioso ed il piatto acquisire sapore più forte e particolare. Si rispettano così le usanze più tipiche che vogliono abbinati alle singole feste e ai cibi più tradizionali.

La Pasta fatta in Casa

La maggior parte delle donne marchigiane è abilissima nel confezionare la pasta fatta in casa, rispettando fedelmente dosi e tempi ben precisi, tramandati dalle anziane vergare. Il segreto per ottenere un risultato sicuro sta nella forza e nella destrezza con cui viene trattato l’impasto nonché nel rispetto di inderogabili regole per quanto riguarda la cottura. Vediamo come si deve fare: si versa sulla “spianatora” la farina occorrente (se ne consiglia un etto a persona); al centro della montagnola si apre con le mani un buco – la cosiddetta Fontanella – in cui si fanno scivolare uova intere (un uovo ogni 100 g di farina) e si aggiunge un pizzico di sale.

Con la punta delle dita si incomincia ad impastare dall’interno della Fontanella, incorporando poco a poco la farina nelle uova. Per rendere l’impasto un po’ più morbido si può aggiungere anche un cucchiaio d’olio d’oliva e si lavora per una decina di minuti con un movimento ritmato. Alcune donne accompagnano addirittura la spinta delle braccia sulla massa sollevandosi è abbassandosi alternativamente sulla punta dei piedi.

Quando l’impasto risulta ben omogeneo, si raccoglie a palla e si lascia riposare tra due piatti o avvolto in un tovagliolo. Quindi si procede con l’operazione giustamente definita come la più delicata, quella di tirare la sfoglia con il mattarello, sempre infarinato perché la pasta non si appiccichi o si strappi.

La sfoglia va allargata un po’ alla volta e, per essere perfetta, deve avere uno spessore uniforme di 2 mm. Ogni tanto si stacca dalla spianatora e si arrotola sul mattarello, poi si svolge di nuovo e si riappoggia spostandola a più riprese con un movimento rapido che va da destra a sinistra.

Dopo qualche minuto si passa a tagliare la sfoglia nel formato che si desidera: quadrati, tondi, rettangoli da farcire per lasagne, ravioli, cannelloni, cappelletti. Se si vogliono le tagliatelle, si arrotola la sfoglia tagliandola poi con un coltello lungo e affilato. A mano a mano che le tagliatelle sono pronte, si stendono delicatamente su un canovaccio.

Quanto al tempo di cottura della pasta, esso varia a seconda del formato: cinque minuti per il formato piccolo, dagli 8 ai 10 minuti per il formato grande. Tra le avvertenze importanti, vanno ricordate la notevole quantità di acqua opportunamente salata in cui deve essere cotta la pasta e la scelta del condimento, più o meno denso o sostanzioso a seconda che si tratti di tagliatelle o di pasta ripiena.

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